Riflessioni geografiche n.12

Come per il Vietnam. In questi giorni terribili, guardando ciò che accade in numerosi campus universitari degli Stat Uniti, sembra di essere tornati agli anni Sessanta del novecento, con la protesta per la guerra del Vietnam, iniziata alla prestigiosa Columbia University nel 1964 e culminata con lo “sciopero degli studenti” del 1970 contro l’espansione in Cambogia di detta guerra, cui aderirono quasi 900 campus. Oggi, oltre 40 campus USA (tra cui alcuni dei più prestigiosi) hanno visto una coraggiosa parte di studenti, affiancati da parte del corpo docente, protestare in maniera pacifica, ma molto determinata, contro il sostegno economico dell’amministrazione Biden al governo sionista di Israele, chiedendo di disinvestire, cioè cancellare i loro investimenti e i loro accordi in quel Paese.
La risposta, come accadde 60 anni fa: gli studenti – e molti docenti – sono stati duramente confrontati e arrestati a centinaia dalla polizia, chiamata a intervenire dalle autorità universitarie e cittadine; chiamata, c’è chi dice, a difendere il capitale con la c maiuscola che, in queste Università, pensa di essere il solo principio ordinatore. Ciò che mi pare ci sia di nuovo è che il corpo studentesco sembrano oggi più diviso di allora, quando a fare le guerra e a morire in guerra c’erano, oltre i vietnamiti, proprio i nipotini dello zio Sam.

Infatti, a guardare le immagini e video pubblicati sui social media, oggi la questione palestinese spacca la coscienza americana in due (forse tre considerando che in tanti si sono astenuti, preoccupati – e a ragione – di dover ripagare il loro enorme “debito scolastico”) e sembra riflettere alla perfezione la divisione all’interno della società USA in generale. Da una parte i sit-in e gli accampamenti pacifici di un gruppo multietnico, tra cui numerosi sono gli studenti che si dichiarano di religione ebraica, sui quali gli avvenimenti in Palestina sembrano amplificare i tormenti di una ingiustizia sociale vissuta – e non da oggi – sulla propria pelle. Da un altro lato un gruppo più eterogeneo, in stragrande maggioranza maschio e bianco, che agita bandiere a stelle e strisce e le “sacrosante ragioni suprematistiche”, sognando forse una nuova Palestina – Cancun. (Per fortuna portano il cappellino da baseball e non il cappuccione bianco, o è solo un sintomo di impunità?).
Osservazione geografica: la tecnologia, ha ridotto ancor più le distanze tra comunità umane così distanti sulla carta, unendole empaticamente; mentre non cambia il ruolo dell’ignoranza e dell’avidità, che tengono così distanti comunità umane che condividono gli stessi spazi vitali.
Pare proprio che gli Stati Uniti continueranno a fornire alla geografia sociale, che proprio negli anni del Vietnam prendeva forza, interessanti spunti di riflessione e doloroso materiale di ricerca.

Parole chiave: Palestina, Stati Uniti, guerra, proteste, studenti, università
Foto: “Flyer protesting the draft written by Paul Milgrom, a student at the University of Michigan,” Resistance and Revolution: The Anti-Vietnam War Movement at the University of Michigan, 1965-1972, accessed May 3, 2024, https://michiganintheworld.history.lsa.umich.edu/antivietnamwar/items/show/43.

Riflessioni geografiche n.10

Uno sciame di minacciose comete fende il cielo rabbuiato del Medio Oriente. Ora non manca davvero più niente: dopo le stragi degli innocenti e i regali in armi e veti degli Stati magi, vecchio e antico testamento si fondono a rinnovare un presepio la cui tragicità rischia ora di assumere dimensioni bibliche, estendendosi ben oltre il confine israelo-palestinese degli ultimi, terrificanti mesi di assedio, la cui disumanità sta spaccando in due le coscienze politiche e civili di tutto il mondo.
In questi casi, come fu per la guerra in Ucraina, ormai due anni fa, la geopolitica viene rianimata sui quotidiani e nei talk show, sebbene con consueto, tardivo affanno. A chi conosce questa materia torna in mente un libro del geografo francese Yves Lacoste (1976) “La Geografia serve prima di tutto a fare la guerra”. Va detto che, come di recente sottolineato da Angelo Turco e Marco Maggioli (1), “la riflessione su questo tema non sembra essere stata particolarmente fertile nella nostra disciplina, e segnatamente nella geografia italiana”.
Ma forse le cose stando cambiando: è giunta l’ora che la geografia di tutto il mondo cambi il titolo di Lacoste, sostituendo la parola guerra con pace. Memori delle parole “la Geografia è anche uno strumento fondamentale per fare la Pace” del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel 2017 al convegno per i 150 anni della Società Geografica Italiana, i geografi italiani battono finalmente un colpo, in primis con la notizia che le prossime “Giornate della geografia” A.Ge.I. (Trento, 12 e 13 settembre pv) saranno dedicate alla Geografia per la pace.
Una scelta più che mai opportuna e di assoluto buon senso, perché, ne siamo convinti, la geografia è conoscenza dell’alterità ed estimatrice della diversità e, in quanto tale, strumento primario di comprensione e di pace.

السلام عليكم – che la pace sia con te – שהשלום יהיה איתך

(Foto: droni iraniani verso Israele, 13/04/24, Reuters/Corriere.it.).
(1) La frase appare nell’introduzione al volume “Spazi di guerra, spazi di pace. Una lettura geografica di Michael Walzer e delle culture morali del conflitto armato” (Mimesis Ed., 2023), lavoro collettaneo a cura dei due autori su citati.
(Parole chiave: Medio Oriente, conflitti, Palestina, pace).